Personalmente non mi fiderei di un uomo col cappello che si aggira barcollando tra le vie della propria città

sabato, dicembre 05, 2009

Una vecchia etichetta


Arrivai al casolare per l’ora di pranzo e lui già sedeva su quella che non era una sedia a dondolo come tante. Non poggiava a terra e non aveva uno schienale che si potesse definire tale. Credo, con tutta franchezza, che quella non fosse nemmeno una sedia. Era in vimini, parsimoniosamente intrecciato a dare l’aspetto di un guscio d’uovo tagliato a mezzo. Da questo a definirla sedia ce ne passava. Per la maggior parte del tempo restava sospesa a mezz’aria nel mezzo della veranda ballonzolando al vento, come solo le spighe di grano cullate dalla mite brezza marina sapevano fare. Si trattava di un oggetto da collezione, non che valesse chissà quanti soldi, questo no, ma faceva parte di quella che mio nonno paterno chiamava la sua collezione. Collezionista. Al vecchiaccio piaceva definirsi così: un collezionista, di sogni e ricordi per giunta. A mio padre la cosa non piaceva e spesso li si sentiva litigare per quel marasma confuso di cianfrusaglie che mio nonno possedeva. Quello che mandava in bestia il mio babbo non erano gli oggetti in se, quanto le storie che su di loro raccontava e che il “vecchio malato”, come lo chiamava lui, spacciava per assolutamente vere: “ Tutte! Tutte storie che questi oggetti celano. Raccontano di sogni e speranze, di avventure e vacanze, di gioie e tragedie! Non pretendo che tu capisca, ma son cose mie e non ti deve interessare l’uso che ne faccio.” Di tutta risposta mio nonno riceveva un inutile discorso sul fatto che io non ero cosa sua e che spettava a mio padre plasmare il mio giovane essere, a lui e a mia madre ovviamente.


Come spesso capita ci si dimentica di chiedere al diretto interessato, o perchè troppo piccolo per capire o perchè, semplicemente, la voglia di aver ragione vince sulla ragione stessa. A me piacevano un sacco quelle storie, morivo di gioia ad ascoltarle e a notte mi facevano compagnia.

Quel giorno pranzammo senza il padre di mio padre che non volle abbandonare la postazione di vedetta per nessuna ragione. Il resto del pomeriggio lo trascorsi sui colli circostanti. Quanto mi piaceva correre in mezzo ai vitigni! 
Rincasato dissi della mia avventura al nonno che dal suo regale trono vigilava sul territorio. Si doveva esser fatto portare dalla nonna una bottiglia di vino e un calice. Notai un foglio spiegazzato stretto nel pugno della mano destra. Quel foglio parecchi anni dopo sarebbe diventato il suo unico lascito. A me.
Il nonno oltre che un eccellente oratore era un bravo ascoltatore. Finii di raccontare la mia sfrenata corsa e lui, sorseggiando con profonda venerazione e intensità il vino dal calice mi chiese se avessi voluto sentire una storia nuova; una storia che nessuno aveva ancora sentito. Controllai che nei paraggi non ci fosse mio padre e felice annuii alla proposta. Si sistemò comodo sulla sedia, riempì il calice e lo bevve d’un fiato. Si strofinò le labbra per assaporare quella solitaria goccia che sempre si posava delicatamente sulle labbra come se attendesse di essere salutata e gustata un’ ultima volta; un fugace saluto, un intenso bacio d’addio. Prese il foglio che teneva in mano, lo stirò, se lo mise innanzi agli occhi e schiaritosi la voce prese a leggere. 
Questa è la nostra storia, una storia per noi felice, di un amore costruito nel tempo, senza mai vedersi, senza sapere chi fossimo, come fossimo, senza immaginarci, pensarci, estremamente lontani, senza sapere dei nostri desideri, non conoscendo le nostre emozioni, senza ricordi di una storia vissuta fino a quel fatale fatidico istante in cui coronammo il nostro amore. Breve, intenso, vero.
Nacqui parecchi anni addietro in una fertile terra non molto distante dal mare. Fin da piccola mi piaceva essere cullata dalla brezza marina che dalla costa raggiungeva le nostre colline. Mi piaceva passare le giornate a farmi accarezzare dal vento dal sapor di sale e di avventure. Guardavo spesso l’orizzonte immaginandomi capitano di un veliero alla conquista di mondi sconosciuti oppure divenivo un delfino che accompagnava i pescatori nelle loro escursioni o ancora ero acqua in viaggio per i sette mari.
Anch’io nacqui parecchi anni addietro in una terra che gli autoctoni chiamano “busa”. Si trattava di una valle circondata da montagne a nord e da un immenso, longilineo lago a sud. Appariva  come una buca profonda tra le vette aguzze dei colossi montuosi che la sovrastavano. Mattiniero com’ero tutti i giorni andavo di buon’ora sulla riva del lago ad ascoltare il canto dei cigni e di altre creature. Il vento si alzava preciso e instancabile all’ora di pranzo e sussurrava alle onde le storie che era andato raccogliendo durante il suo tragitto. Le onde ascoltavano e subito colme di eccitazione andavano a raccontarle alla spiaggia ciottolosa che le borbottava alle mie giovani orecchie. Sereno tornavo a casa custodendo gelosamente quelle storie che non avrei mai raccontato a nessuno.
Crescendo ebbi bisogno di nuovi stimoli che trovai nella mia terra. Argillosa, fertile, mite e soleggiata sia durante l’estate che in inverno era meta costante di visitatori che coloravano e rallegravano le mie giornate rendendole meno monotone e più vive. Si sedevano ai miei piedi, vicino a me, in compagnia o anche in solitudine a raccontare le gioie della loro vita, ma anche le disavventure, ridendo e scherzando, piangendo e meditando, ma sempre vivi e pieni di spirito.
L’infanzia volò e giunse il tempo dell’adolescenza dove tutto da quel momento in poi non sembrava più così armonioso, platonico, irreale e magico. Stavo crescendo, ma il mio voler rimanere innocente cozzava con la realtà bruta e cruda. Mi piaceva andare in piazza ad ascoltare i discorsi degli avventori dei vari locali o dei forestieri, mercanti o semplici viaggiatori, che narravano le loro vicissitudini. Tutto pur di eludere e far i conti con la mia realtà. Storie che modificavo e riorganizzavo per crearne di nuove: nuovi mondi nei quali mi sarebbe piaciuto vivere e sui quali fantasticavo.
Purtroppo arrivarono le sette vacche magre e quel tempo fuggì via, per sempre. Fui strappata alla mia famiglia e alla mia casa insieme ad altri come me. Ci condussero in una specie di campo di concentramento dove venimmo severamente disciplinati. Pestati come bestie; per quale motivo poi? Ci dissero che sarebbe servito per fortificarci e farci crescere belli e forti.
Giunse il periodo di leva durante il quale mi massacrarono con turni estenuanti ed esercitazioni al limite del possibile, ma il peggio sarebbe ancora dovuto arrivare. Scoppiò la guerra e ci chiamarono alle armi. Fummo spediti al fronte dove vidi morire alcuni dei miei migliori amici.
Ci inculcarono particolari principi appresi i quali perdemmo parte del nostro essere. Ci rilasciarono, eravamo sopravvissuti a quegli orrori, ma sentendoci troppo diversi per tornare a casa ci isolammo in luoghi solitari, rinchiusi in antri bui a meditare sul mondo.
Tornai sano e salvo, solo e unico superstite tra i molti che partirono dal mio paese. Quella non era più la mia città natale; si c’erano le case, le montagne e il lago era ancora lì col vento che narrava alle onde e le onde alla spiaggia e la spiaggia a...nessuno. Anche i gabbiani e i cigni se ne erano andati, migrati verso terre più felici. Decisi di andarmene e mi trasferii in una casa di campagna dove mi dedicai alla natura, alla lettura e alla meditazione.
Fremevo. Mille emozioni inespresse. Un giorno arrivò lui.
Era giunto il momento di tornare alla vita che lasciai da piccolo e per festeggiare la mia scelta scesi in cantina. Andai verso una botte di modeste dimensioni, all’interno vi era il frutto del mio primo raccolto. Riempii una bottiglia e risalii in veranda.
Mi sedetti.
Bevvi.
Migliaia di ricordi e di emozioni come un fiume in piena: sentimenti, odori, storie, racconti, persone.
Addio amore, ancora un fugace intenso bacio e poi addio per sempre.
Mio nonno si alzò dalla sedia e mi mostrò il foglio: una vecchia etichetta di vino pensata per una bottiglia speciale.
Tua Uva.
Tuo me.

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