Personalmente non mi fiderei di un uomo col cappello che si aggira barcollando tra le vie della propria città

martedì, dicembre 11, 2012

Pn G.D.O 020420121259


Che ci crediate o no, io scrivo a penna. 
Preferisco le penne a sfera, di plastica, con inchiostro nero, dal design accattivante fintamente ergonomico. Quelle delle banche. Quelle che ti vengono consegnate a inizio anno insieme al pratico calendario portatile e a una ingombrante agenda che sei costretto ad accettare spronato dall’ammiccante sorriso dell’impiegata. La scollatura sovrasta le parole. Sorridi, paghi, prendi i gadget : “... gentilmente offerti dalla nostra banca che pensa solo ed esclusivamente al suo bene.” Lei sorride, questa vola più di seno.
Esco dalla sede centrale e mi dirigo alla macchina; il tempo è decisamente contrario al mio malumore e il sole si prende le attenzioni di tutti in un cristallino cielo di una domenica di gennaio.
A casa la mamma ha preparato il pranzo abbondante che imbandisce due volte al mese. É il pranzo della partenza. Tra poche ore ho il treno che mi porterà lontano da queste mura e da questo paese di montagna. Casa che non sento più come mia. Paese che mi riversa addosso gli insuccessi dei miei passati amori.

Aspetto sul terrazzo e penso alla natura e ai suoi progetti. Lei se ne frega il cazzo di chi siamo e cosa facciamo e, mentre c’è chi perde tempo a filosofeggiare su fottuti terrazzi, si gode le proprie macabre gioie: terremoti, uragani, tempeste, eruzioni, sbalzi climatici, estinzioni. Evoluzioni.
“Guardando con attenzione oltre l’orizzonte potete vedere il ghigno feroce e sovrumano che le è consono. La leggenda narra che in giornate come questa si possano sentire i suoi pensieri e si dice goda delle colpe che l’uomo sensibile imputa a se stesso.” La guida della vita ti informa con puntuale ritardo.
Sul treno per Padova mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Niente e nessuno potrà disturbarmi. Tengo il biglietto in mano nel caso passi il controllore. Sarà lui ad arrangiarsi. Io dormo.
“... Trenitalia si scusa per il disagio”
Padova: comune italiano di duecentoquattordicimilacentoventicinque abitanti, ai quali si aggiungono i quattrocentotrentatremilasettecentosessanta abitanti dell’area metropolitana circostante. Terzo comune della regione Veneto, il primo per densità. Decine di palazzi, un sacco di storia e centinaia tra chiese e luoghi di culto. Una università tra le più antiche del mondo con settecentonovanta anni accademici sulle spalle e più di sessantacinquemila studenti all’attivo. E poi ci sono io.
Studente fuori-sede iscritto al terzo anno di Lettere moderne, ma al suo quarto anno dall’immatricolazione. Assiduo frequentatore di bar, sale bigliardo e bowling. Scarsissima capacità comunicativa con applicazione verbale da diciotto. Regalato. 
Tutta questa gente in così poco spazio. Tutti addestrati a orientarsi tra i banchi di nebbia. Tutti apparentemente ben integrati nel territorio. 
Che cazzo ci faccio io, qui.
Quattro anni fa questa era la mia terra promessa, il luogo in cui fuggire dall’oppressione della vita sedentaria e ripetitiva. Il posto che sarebbe dovuto diventare la nota biografica in calce alla mia biografia non autorizzata: Padova, luogo da cui nacque l’uomo che diventò leggenda.
Per un breve periodo immerso in questa umidità mi sono sentito sollevato: l’università era la fuga verso la libertà. Il seme dell’albero della mia vita.
Cos’ha trasformato Padova? Nulla. Il problema non è mai stato la città; lei non ha colpe maggiori a quelle di altre.
Davanti a me tre opzioni: andare a piedi; andare con un mezzo pubblico; andare a piedi e con un mezzo pubblico. Decido di andare a piedi. Mi incammino a passo celere verso Corso del Popolo attraversando con assoluto menefreghismo il grosso incrocio antistante la stazione. Dalle porte del Mc Donald’s esce l’aria viziata dall’olio di frittura e dai respiri affannosi di cardiopatici clienti. Ragazzi di tutte le età si avventano con le loro pance obese sui tavolini colorati e pieni di allegria. Il grasso saltella rivelando l’ovvia presenza sotto i molteplici strati di cappotti e felpe. Sono anch’io uno di loro. Ma non oggi. 
Il tram trilla il suo avvertimento e se non voglio essere investito mi devo dare una mossa.
Un primo senso di desolazione fa capolino tra fegato e cuore, proprio sotto lo sterno. Lì. Capisco quanto sono vuoto mentre fisso le espressioni della gente di colore che bazzica le zone limitrofe la stazione o il marciapiede al di là del cavalcavia Borgomagno o fuori dai locali lungo Corso del Popolo. Il loro sguardo riflette il mio. Sono assenti, pensano a una felicità che non potranno mai raggiungere. La loro tristezza si è fatta scudo di un cipiglio duro e minaccioso, ma sono i primi a non sopportarlo. Sono nati del colore sbagliato, nel luogo sbagliato e in un momento sbagliatissimo. 
Mentre mi dirigo verso il centro un secondo tram mi passa vicino. Strabocca di studenti con valigie o valigie con studenti e su quello che sembra essere una scatola di umani in salamoia di sudore, riesco a distinguere tre scippatori, due spacciatori, due controllori e una zingara con in braccio la figlia che mi fa ciao ciao con le manine. Autobus e tram sono i soli capaci di un melting pot a regola d’arte.
All’altezza dei Giardini dell’Arena svolto in via Giotto e subito in via Giacomo Matteotti fiancheggiando le porte Contarine. Poi Via Martiri della Libertà fino alla Mondadori. Qui la gente di stazione non c’è più e i locali cominciano a essere frequentati da persone apparentemente più aristocratiche o quantomeno benestanti. Falsi.
I palazzi si imborghesiscono e l’atmosfera si fa più locale, a misura di autoctono. Provo un brivido di disgusto. Giovani compassionevoli, ben imbellettati, con una mano sotto le sottane e l’altra a reggere il bicchiere si prendono gioco dei venditori di rose. Provo un forte disprezzo per il genere umano. 
Quanto sono ipocrita. Quante rose ho mai comprato? Le scuse che mi sono inventato sono lo specchio delle loro risate. Sono altrettanto deplorevole. Gandhi perdonami: ho un’anima da carnefice.
Per cena una bistecca, cotta senza decongelarla su di una vecchia padella che di antiaderente ha solo il ricordo. 
Il mio rifugio è un palloncino sgonfio, Padova ha esaurito la sua energia; è stata inglobata nella routine, nel quotidiano. Non provo più stupore, nessuna novità, gli angoli e gli odori sono foto lucide nella mia memoria. Capisco di essere fuggito senza la vera intenzione di scappare e il Disagio mi ha trovato. Si diverte a distruggere questo nuovo mondo mostrandolo nella sua realtà.
Due sere a settimana percorro quasi quaranta minuti di bicicletta. La mia è rossa, rubata. Dalle nove alle undici seguo un corso extra scolastico. Lo frequento perchè è quel che resta di un sogno destinato a naufragare, una sorta di entropia del destino. Pedalo senza sosta attraversando corso Uruguay e quando arrivo in corso Stai Uniti...
Forse dovreste semplicemente vedere. Ai lati delle quattro corsie decine di camion sostano per la notte e tra le motrici e sotto le fermate dei bus appaiono nella loro folgorante presenza decine di prostitute. A tarda notte rincaso e passo vicino a quei corpi messi in bella mostra, accattivanti, provocanti, esageratamente fuori luogo. Li osservo a uno a uno, senza fermarmi e il mio occhio non si perde un dettaglio. Non sono donne bellissime. Non tutte. Alcune sì. Sono giovani e meno giovani e vorrei trovare il coraggio di fermarmi a parlare con loro. 
“Devono lavorare, se sono qui ne hanno bisogno” penso.
Mi fermo e la pago? Mi chiedo se si possa andare a prostitute con una bicicletta. 
A livello inguinale lo stimolo sessuale comincia a rimarcare la sua presenza. Sento il bisogno di sfogare i miei istinti. Ho voglia di penetrare, voglio stare con una ragazza, voglio scopare. Sono un maschio sui vent’anni: voglio fare sesso.
Puttana! 
Il mio membro si affloscia istantaneamente e una ventata di calore formicolante attraverso la spina dorsale divampa sulle gote e nelle orecchie. La conosco. Quantomeno fa la mia stessa facoltà. É un brutto colpo da digerire. Lei non sembra essersi accorta di me. Meglio.
É mercoledì. Sfogo le frustrazioni e i miei pensieri nell’alcool: lo chiamano mercoledì universitario. Mentre bevo penso alla mia carriere universitaria, al mio futuro post-laurea, alle compagne di corso dal lavoro precario; penso a chi si prostituisce per campare e per studiare; penso ai sogni infranti, alle decine di illusioni svanite; penso ai miei amici, molti dei quali spaesati, altri fuggiti via a cercare se stessi; penso alle relazioni tra le persone, ai rapporti sociali, all’equilibrio entropico della natura; penso alla religione, cancro incurabile. Una nebbia alcolica dà ordini alle mie sinapsi celebrali e tutti questi pensieri vengono legati su di una zattera e abbandonati in mezzo all’oceano. 
Parlo con chi mi sta vicino di qualcosa che non riesco a focalizzare, ma le parole escono come un fiume in piena. Sono coinvolto e la serata promette bene. Bevo e parlo e faccio conoscenze.
Mi ritrovo in un appartamento che non conosco. Lei è bellissima, ubriaca quanto me, nuda davanti ai miei occhi. Mi abbandono al suo corpo. I nostri corpi si uniscono e si riempiono a vicenda. Padova prova a fronteggiare il Disagio tentando di colmare quel vuoto che ho dentro. 
“Se cortesemente mi seguite da questa parte senza fare troppo rumore, potete notare due studenti universitari in fase di coito” dice la guida della vita con puntuale ritardo.

Nessun commento:

Posta un commento